Ripartire dalla solidarietà, quella forza propulsiva iscritta nell’articolo 2 della Costituzione e che ha permesso all’Italia di rinascere dopo la guerra e il fascismo. È questa la strada che Andrea Simoncini, costituzionalista e ordinario all’Università di Firenze, propone come via d’uscita di fronte al profondo malessere che attraversa la società contemporanea. Lo spiega in questa intervista nella quale analizza i segni della crisi e sottolinea il contributo specifico che i cattolici sono chiamati a offrire.
Innanzitutto, qual è la condizione della società italiana?
La filosofa Martha Nussbaum nel 2018 ha scritto un libro che mi pare condensi in maniera efficace il carattere dominante del mondo in cui oggi viviamo; s’intitola La Monarchia della Paura. È un’analisi della società americana dopo il voto a Trump, ma coglie aspetti in cui è facile scorgere l’Italia di oggi. La tesi di fondo: non è la prima volta nella storia che la società americana si è scoperta “diversa” — basti pensare alla guerra civile nord-sud, al “maccartismo”, alla segregazione “bianchi-neri” — e queste diversità hanno prodotto divisioni terribili, violente, conflitti tra gruppi, schieramenti, fazioni. Oggi, però, la questione presenta un accento nuovo: la divisione non è più un fenomeno collettivo, essa, innanzitutto, ha una origine individuale. La divisione non nasce dalla diversità, ma dalla paura della diversità; e questo è tutta un’altra storia. La diversità, nelle società contemporanee, è un fatto (come diceva Rawls «the fact of pluralism»). È un dato: siamo diversi. La paura, invece, è un’emozione. Il primo indicatore di questo cambiamento antropologico, dice Nussbaum, è il linguaggio. Le parole che oggi dominano sono “rabbia, disgusto, esclusione, vendetta, diffidenza”.
A me pare che questo giudizio al fondo valga anche per la società italiana. La nostra storia è fatta di diversità, di pluralismo: dalla “espressione geografica” di Metternich, alla conquista militare del Sud operata dai Savoia, dal non expedit e il conflitto tra cattolici e stato liberale, alla “cortina di ferro” tra Dc e Pci negli anni ’50, dalla diversità nord-sud fino alle mille diversità tra città, paesi, contrade. Una storia di diversità e, dunque, anche di divisioni. Eppure oggi qualcosa sta cambiando: l’accento, il sottofondo, la tonalità del discorso e delle sue parole-chiave: “rabbia, disgusto, esclusione, vendetta, diffidenza”. Tutto questo accade non perché siamo diversi, ma quando abbiamo “paura” di essere diversi.
Zamagni dice che l’origine di questa paura è la solitudine.
D’accordissimo. Vae soli!, “Guai all’uomo solo” ricorda l’Ecclesiaste, nella sua saggezza millenaria. Io penso che l’origine di questa paura diffusa — che sta cambiando il nostro atteggiamento dinanzi alla diversità — stia in quella “solitudine esistenziale” di cui ha parlato il prof. Zamagni da queste colonne. Ma vorrei aggiungere che, ancor più in radice, l’origine di questa solitudine sta nel modo in cui oggi è vissuta l’idea di libertà. La parola libertà è la cifra del mondo contemporaneo. Come ricorda spesso don Julian Carrón, citando Don Chisciotte, «La libertà, Sancho, è il più gran dono che Dio ha fatto all’uomo». Ma tanto è vitale e decisiva, quanto non ne condividiamo più il significato. Oggi pensiamo che la libertà sia essenzialmente non avere legami. Il paradigma — ci ha insegnato Bauman — è lo stato “liquido” e non più quello “solido”— da cui, ricordo, deriva “solidale” —. Per questo, più siamo liberi più siamo soli. Una ragione senza interferenze, questo è il mito della pedagogia neutrale, della educazione senza educatore. È evidente che la nascita di un figlio disabile (o più semplicemente di un figlio diverso da come lo vorrei) cambia la vita e ti rende, in qualche modo, dipendente da lui. Questo vuol dire che non sono più libero? Se il matrimonio, dopo un po’, si mostra più faticoso di quello che pensavo, diventa una “palla al piede”, l’immagine dello schiavo. Il diritto e la tecnica sono diventati gli strumenti fondamentali per “tagliare” questi legami. Per rendere liquido ciò che era solido. E per questo diritto e tecnica oggi sono i baluardi della libertà moderna. Bobbio lucidamente ha definito la nostra come “l’età dei diritti”. Una serie di dati che consideravamo “fatti”, cioè avvenimenti indipendenti dalla nostra volontà — la nascita, la morte, come sarà mio figlio, come si comporterà mia moglie, che malattie avrò — oggi possono essere trasformati in “atti”, cioè possono diventare oggetto di una nostra “decisione” tramite la tecnologia. E così le relazioni, i rapporti umani diventano tutti contratti. Il protagonista della civitas non è più il cittadino, ma il consumatore. Come ricorda Massimo Recalcati, abbiamo ridotto il desiderio a una somma di bisogni. E i bisogni sono soddisfatti da oggetti, mentre il desiderio è un’apertura la cui soddisfazione è solo nella relazione. Il consumatore ha bisogno di oggetti e la sua forza sta nel fatto che, siccome paga, ha solo diritti, non doveri. E il suo diritto fondamentale (il “superdiritto”) è poter “scegliere”. Le nostre scelte — quelle che pensiamo siano nostre scelte — da espressione della libertà ne sono diventate il contenuto; con la conseguenza che chi raccoglie, prevede e, quindi, indirizza e controlla queste nostre preferenze, ebbene, “quello” è il nuovo Sovrano.
Ma proviamo a osservare un bambino. Quando si sente davvero libero (di giocare, ad esempio)? Se vede i genitori vicino a sé, o se scopre di essere solo? La solitudine paralizza, non libera. La libertà dell’uomo è proporzionata alla sua dignità, cioè alla consapevolezza di essere meritevole di considerazione, di sentirsi voluto, qualsiasi scelta faccia, prima di farla. Esattamente come un bimbo con la madre o come il figlio prodigo della parabola del Vangelo di Luca con il Padre.
Penso che una delle responsabilità più gravi del pensiero contemporaneo sia quella di aver inaridito l’idea di libertà, relegando queste evidenze elementari a una fase provvisoria, transitoria dello sviluppo della personalità; destinate a scomparire via via che si diventa adulti. Invece, anche nella fase adolescenziale, quando le certezze trasmesse per tradizione — giustamente! — debbono essere vagliate e messe in crisi, quando diventiamo grandi, le relazioni non scompaiono, ma cambiano, maturano; la dipendenza naturale del bambino diviene “amicizia”, un’amicizia sociale, per riecheggiare Papa Francesco.
Che impatto ha questo nuovo volto della società italiana rispetto al sistema politico e istituzionale?
Formidabile. Questa libertà atomizzata, in cui l’auto-determinazione consiste nel non avere nessun “mediatore” (la famosa dissoluzione dei corpi intermedi di cui parlano sia De Rita che Zamagni) per esistere ha bisogno di un gigantesco sistema di risoluzione artificiale dei conflitti, che è lo Stato, l’autorità pubblica. Se non ci sono più relazioni sociali a ordinare la vita, l’unica alternativa è l’autorità dello Stato ovvero, sempre di più, della Tecnica. Era la grande utopia del ’68: la contestazione di tutte le autorità morali, sociali, culturali, di tutte le tradizioni che ingabbiavano la società e la grande speranza nella “politica”. Ricordo uno slogan di quando ero ragazzo, negli anni ’70, che diceva «il privato è politico». E difatti tutti gli Stati europei dopo quegli anni sono diventati fortissimi dispensatori di assistenza, di welfare, di previdenza, in una parola, di “fiducia”. La fiducia, da tratto tipico delle relazioni umane e delle comunità, si è spostata sulle istituzioni, sia quelle pubbliche statali, che, soprattutto, quelle assicurative e finanziarie.
La svolta è stata l’avvento del XXI secolo, quando questa fiducia è stata drammaticamente tradita. Prima tradita dalla finanza e poi dagli Stati. La disillusione nei confronti delle istituzioni politiche e finanziarie è la nuova cifra della società in cui viviamo. Se guardiamo l’Eurobarometro, vediamo che dagli anni ’60 fino all’inizio del 2000 la fiducia nei confronti delle istituzioni europee, è stata sempre altissima, molto più alta di quelle nazionali. Poi è iniziato un inesorabile declino per cui oggi più del 70 per cento degli europei non si fida delle istituzioni europee, esattamente come di quelle nazionali. Mai le istituzioni pubbliche sono state deboli come in questo momento. Papa Benedetto citando sant’Agostino ricordava, «remota iustitia quid sunt regna, nisi magna latrocinia?», se non percepiamo più la fiducia nella giustizia delle istituzioni pubbliche, cosa rimane se non dei grandi meccanismi di potere e sopraffazione?
E d’altra parte, invece, mai le corporazioni private sono state così forti. Oggi le principali multinazionali tecnologiche (Google, Facebook, Amazon, Microsoft, etc.) non solo sono molto più ricche di alcuni Stati, ma sono percepite come attori decisivi per la nostra libertà molto più delle istituzioni democratiche. Pensiamo solo al dibattito pubblico — un elemento decisivo per il funzionamento della democrazia — oggi è monopolizzato da pochissime piattaforme web private, di proprietà delle cosiddette Big Tech. L’utopia del ’68 si è trasformata nella peggiore delle distopie: oggi lo spazio politico è diventato privato. Distrutta, quindi, qualsiasi formazione intermedia (che si chiami famiglia, casa del popolo o parrocchia), traditi dalle banche e dalle istituzioni pubbliche, disgustati dalla “casta” dei politici, ingannati dai partiti e dai sindacati, cosa rimane? Il rapporto diretto, immediato, tra il leader e il popolo. È quello che la letteratura scientifica chiama populismo.
Da dove ripartire? Come tornare a creare spazi di comunità? Come riaggregare la società italiana?
Io penso che qui si giochi la partita fondamentale del futuro della nostra società, ma anche delle altre società europee. La demografia ci condannerebbe — siamo a crescita zero da decenni e, assieme al Giappone, siamo il paese relativamente più vecchio del mondo e al fondo questo è il vero nodo da cui passa qualsiasi ipotesi di soluzione anche se nessuno ne parla — ma la spinta alla relazione, alla cooperazione è ancora presente nel cuore di ognuno, anche se allo stato latente. Alcune vicende gravi che hanno colpito il nostro paese hanno “slatentizzato” — come dicono i medici — il cuore e abbiamo visto riemergere la spinta solidale in tutta la sua potenza.
Orbene, il problema più serio è che queste comunità non si creano “artificialmente”. O meglio, artificialmente possiamo creare associazioni o nuove istituzioni; aggregazioni, per dir così “funzionali”. Più persone si mettono assieme per uno scopo che condividono. Questo vale per la Fiat come per una associazione culturale o un condominio. Il problema è che in queste aggregazioni possiamo rimanere del tutto estranei gli uni agli altri; l’unica motivazione che ci tiene assieme è ottenere il vantaggio che ciascuno si aspetta. Non intendo dire che siano sbagliate, per carità, ma non sono queste che fanno la differenza.
Le comunità di cui abbiamo bisogno esistono per un principio di gratuità, o meglio di gratitudine.
Communitas, viene dal latino cum-munus, aver avuto un dono insieme. Essere stati donati gli uni agli altri; direbbe il mio amico Mauro Magatti, è sempre una dinamica generativa l’origine di una comunità sociale. Se vogliamo una immagine chiara, un identikit, di quale sia il fattore costitutivo di queste comunità basta guardare alla nostra Costituzione. L’articolo 2 — pietra angolare dell’architettura costituzionale, come diceva Giorgio La Pira — usa una parola estremamente laica: “solidarietà”. Solidarietà viene dal latino “solidus”; due persone sono “solidali” se ciascuno risponde di tutto, non solo per ciò che è suo, ma anche per l’altro. La nostra Repubblica letteralmente non sarebbe rinata dopo la guerra e il fascismo senza questa scommessa sul riconoscimento dei diritti inviolabili “assieme” a questa forza coesiva, personale e collettiva, che è il “dovere di solidarietà”. Oggi il problema è che gli italiani — e non solo loro — sembrano diventati ostili e aggressivi perché non ricordano più perché val la pena essere solidali. Avendo dimenticato il vantaggio umano dell’assumersi una responsabilità, nelle relazioni siamo solo capaci di pretendere; un po’ come quei bambini poco considerati dai propri genitori che tendono a essere sgarbati e pretenziosi con i compagni; tutto, allora, diventa una pretesa: dagli altri, dallo “Stato”, dal “Comune”, dal vicino, dal dipendente, dal datore di lavoro. Una comunità solidale, invece, è quella in cui il problema di uno interpella, innanzitutto, ciascuno prima che le istituzioni. Tutti sono alla ricerca di questa solidarietà; sono rimasto colpito dalla lettera di Larry Fink, il Ceo di BlackRock — uno dei fondi di investimento finanziario più ricchi e influenti del mondo, proprietario, ad esempio, del 5 per cento della nostra Intesa San Paolo — che ha scritto a tutte le società in cui hanno investimenti, chiedendo a tali società di portare un «beneficio non solo agli azionisti, agli impiegati e ai consumatori, ma anche alle comunità in cui operano» e minacciando di uscire da società che non si pongano tale domanda. E, si badi, non c’è nessun “buon cuore” o particolare senso morale in tutto ciò, ma solo la lucida e realistica considerazione che il profitto da solo non è sostenibile nel medio-lungo periodo; se vuole durare nel tempo, ha bisogno di rafforzare il legame sociale. In una società distrutta, senza reti di amicizia e legami, anche il profitto è travolto.
Che ruolo può giocare la Chiesa in questa sfida per la società italiana?
A mio avviso la Chiesa può giocare un ruolo decisivo a patto che si capisca la natura della sfida. Come dicevo, non mancano comunità funzionali, iniziative o leggi per cercare di tenere assieme artificialmente le persone. Non è un supplemento di moralità o di legalità quello che farà la differenza. Il bisogno vero è molto più profondo e penso che non possa essere affidato a forme istituzionali.
Io penso che ciò di cui oggi tutti abbiamo bisogno è che nella nostra società italiana tornino a essere protagonisti persone, donne e uomini, anziani e ragazzi, che sentono la diversità non come una minaccia, ma come una occasione; che dinanzi ai problemi comuni, non attivino subito la modalità “rabbia o lamento”, ma si pongano la domanda “io posso fare qualcosa?”. Insomma si tratta di ripartire dal soggetto umano e dalla possibilità di essere introdotti al mondo come una grande avventura per la libertà.
La Chiesa nella sua costante preoccupazione pedagogica può dare un contributo preziosissimo, non sostituendosi alle decisioni delle istituzioni civili o politiche, ma, come ha fatto da 2000 anni, consentendo la crescita di persone che nella loro esperienza possano sperimentare la ragionevolezza della condivisione, possano mostrare perché ancora oggi valga la pena stare assieme.
Il punto discriminante non è che una società per poter vivere e fiorire debba essere fatta solo di cristiani, ma che, in qualsiasi società, i cristiani siano liberi di far vedere, di testimoniare un certo modo di affrontare le questioni pubbliche; una modalità ragionevole, conveniente, affascinante, perciò convincente. È il sale della democrazia sostanziale.
Nel novembre del 2015 ho avuto la possibilità di assistere nella mia cattedrale di Firenze al discorso di Papa Francesco alla Chiesa italiana; lì ha tracciato un percorso a mio avviso lucidissimo. Avendo sopra di sé il meraviglioso affresco dello Zuccari con al centro la figura di Gesù e la scritta «Ecce Homo» e ha ricordato: «Noi sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano del celebre “homo homini lupus” di Thomas Hobbes è l’«Ecce homo» di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva. La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media (….)
Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà.(…)
Ma la Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose».
C’è un “contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune”. È la peculiarità assoluta della Chiesa di Roma in quanto “cattolica”: una storia particolare porta in sé la speranza per il mondo intero. Pensare, come fa il Papa, alla nostra società e, dunque, alla nazione italiana come un’opera “collettiva in permanente costruzione”, toglie ai tempi che stiamo vivendo quell’atmosfera cupa e angosciata di catastrofe imminente e rende nuovamente entusiasmante la prospettiva di una presenza pubblica.
L’Osservatore Romano